L’insegnamento della storia dell’arte è frutto di un lungo dibattito interdisciplinare iniziato a fine Ottocento. Il lavoro di Susanne Adina Meyer, intrecciato a quello di Roberto Sani, ripercorre questa complessa storia, evidenziando sfide e contributi fondamentali al riconoscimento della disciplina, ancora oggi spesso marginalizzata.

Quello che riguarda la storia dell’arte come disciplina scolastica è un dibattito interdisciplinare tutt’ora aperto che si è andato sviluppando nel corso del Novecento e ha coinvolto storici dell’arte, pedagogisti, docenti, politici, artisti e studenti. È per questo che Susanne Adina Meyer, storica dell’arte e docente di museologia e critica artistica e del restauro, ha deciso di ricostruirlo intrecciando le sue ricerche con quelle di Roberto Sani, docente di storia dell’educazione, entrambi al Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo dell’Università di Macerata. Da questo confronto è nata una ricerca congiunta tra pedagogia e storia dell’arte che ha dato origine a due volumi strettamente connessi, editi EUM. Quello a cura di Meyer, intitolato Cenerentola a scuola. Il dibattito sull’insegnamento della storia dell’arte nei licei (1900-1943), ripercorre le origini e gli sviluppi del dibattito sull’insegnamento della storia dell’arte nella scuola secondaria superiore in un arco temporale compreso tra il 1900 e il 1943.

Le origini del rapporto tra storia dell’arte e scuola secondaria superiore

L’insegnamento della storia dell’arte è tradizionalmente associato alla Riforma Gentile, con cui nel 1923 l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile introdusse ufficialmente la storia dell’arte come materia obbligatoria nei licei classici.

In realtà, questo provvedimento normativo è solo la ratifica di un vivace dibattito che, già nei primi decenni del Novecento, era animato da una pluralità di voci e da una costellazione di testi sull’intreccio tra storiografia artistica e didattica della storia dell’arte.

Susanne Adina Meyer si è riproposta di ricostruire questa costellazione e restituirne la complessità toccando molteplici aspetti della storia della disciplina – motivazioni alla base, programmi, sussidi didattici, differenti approcci, finalità, metodi, sfide e relazione con altre discipline – e raccogliendo i contributi delle figure-chiave del dibattito in una ricca antologia di testi posta in appendice al volume.

«Per amare bisogna conoscere»

«Un punto di partenza», spiega l’autrice, «può essere collocato nel 1899, anno in cui lo scrittore e critico d’arte Enrico Panzacchi pubblicò sul Corriere della Sera un articolo intitolato La storia dell’arte nelle scuole, che stimolò un vero e proprio botta e risposta tra studiosi attorno a questo tema».

Il risultato di questi primi confronti fu la circolare ministeriale del 1903, che introduceva la storia dell’arte come materia facoltativa necessaria per salvaguardare il patrimonio culturale italiano e contrastare la tendenza a farne un uso puramente turistico. Il primo nodo del dibattito è stato quindi il nesso conoscenza-tutela, che fin dalle origini ha collegato l’introduzione dell’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole e la sistemazione delle conoscenze sul patrimonio culturale italiano alla costruzione di una coscienza nazionale.

«Per amare bisogna conoscere», dice Susanne Adina Meyer citando Panzacchi: è importante avvicinare la comunità, e in particolar modo i giovani, al patrimonio culturale e artistico nazionale, perché senza conoscenza e riconoscimento del proprio patrimonio non possono esserci né tutela di quel patrimonio né senso di appartenenza alla nazione.

D’altra parte, però, l’autrice mette in guardia dalla strumentalizzazione propagandistica e nazionalistica dell’arte che potrebbe suscitare questa lettura. Come insegna la storia, infatti, è estremamente facile incorrere in uno slittamento dal piano civile, legato al senso di appartenenza e alla tutela, al piano politico, finalizzato alla costruzione del consenso.

Perché la storia dell’arte è una «Cenerentola» fra le discipline scolastiche

«Il primo a definire la storia dell’arte “Cenerentola” fu lo storico dell’arte Adolfo Venturi in una lettera alla sua allieva Mary Pittaluga, riprendendola probabilmente da un testo tedesco che a metà 800 aveva definito la storia dell’arte Cenerentola tra le scienze accademiche», spiega Susanne Adina Meyer.

Con questa metafora Venturi alludeva allo statuto debole e precario della storia dell’arte rispetto alle altre materie scolastiche. In effetti, come osservava nel 1936 Paola della Pergola in uno degli articoli raccolti nell’antologia del volume EUM, la storia dell’arte è ancora oggi considerata da molti «ora di baldoria». Venturi e molti altri studiosi hanno associato questa problematica alla preparazione inadeguata di molti docenti e allo scarso prestigio della loro posizione professionale. La stessa Susanne Adina Meyer denuncia la «debolezza sociale e burocratica dei docenti di storia dell’arte» che, secondo lei, ha una diretta ricaduta sul rispetto che i ragazzi hanno per la disciplina:

«il problema non è solamente introdurre un insegnamento, ma anche pagarlo, far sì che sia riconosciuto, codificato in maniera scientifica e tenuto da docenti dotati di competenze che solo uno studio prolungato e specializzato può produrre».

Chi dovrebbe insegnare storia dell’arte e come?

Adolfo Venturi, storico dell’arte, titolare della prima cattedra di storia dell’arte presso l’Università “La Sapienza” di Roma e fondatore della Scuola di perfezionamento per gli studi di storia dell’arte medievale e moderna

Uno dei principali nodi del dibattito è stato infatti la formazione della figura preposta all’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Chi è più adatto alla docenza di questa disciplina? Storici dell’arte? Critici d’arte, filosofi, letterati e umanisti in senso lato? Archeologi? Architetti? E soprattutto, a chi è rivolto l’insegnamento? Originariamente l’insegnamento della storia dell’arte era rivolto agli studenti delle accademie, ai quali venivano impartiti insegnamenti teorici funzionali alla pratica.

Successivamente, quando la storia dell’arte fece il suo ingresso nelle aule universitarie prima e tra i banchi dei licei poi, «all’inizio i professori volevano utilizzarla per arricchire e sviluppare nuove forme di insegnamento della storia e della letteratura: fornire non più solo una storia di date, regnanti, autori e guerre, ma una storia della cultura in senso olistico che facesse interloquire le discipline umanistiche tra loro come traiettorie di un’unica evoluzione del pensiero dell’uomo», spiega Susanne Adina Meyer.

Per contro, comincia a farsi sentire anche un’esigenza di specializzazione, scientificità e riconoscimento dell’autonomia della disciplina, su cui Adolfo Venturi si espresse con molta fermezza. Quest’ultimo, infatti, fu titolare della prima cattedra di storia dell’arte in Italia all’Università di Roma “La Sapienza”, dove nel 1903 fondò la prima scuola di perfezionamento in studi storico-artistici, in quanto convinto sostenitore dell’idea che questa disciplina dovesse essere insegnata da storici dell’arte di formazione e professione. La didattica della storia dell’arte si tiene quindi in un delicato, talora precario equilibrio tra autonomia disciplinare e interdisciplinarità, tra specializzazione e formazione umanistica di ampio respiro.

Storia dell’arte come «pedagogia dello sguardo»

Interessante è poi notare che alla sistemazione scientifica della disciplina abbia contribuito anche una significativa innovazione tecnologica: l’introduzione delle proiezioni luminose di diapositive e fotografie come sussidi didattici nelle aule, che a partire dai primi del Novecento hanno consentito di effettuare analisi comparative tra le opere e di fornire così agli studenti una “grammatica visiva”. Questo è un altro tema centrale del dibattito restituito dall’antologia di testi raccolta da Meyer. Natali parla di «educazione degli occhi», Martinozzi di «pedagogia dell’immagine», Venturi di «scienza dell’osservazione», Toesca dell’importanza di «saper vedere»: molti studiosi sembrano insomma concordi nell’idea che, soprattutto in un Paese-museo a cielo aperto come l’Italia, la didattica della storia dell’arte debba poggiare su un’alfabetizzazione visuale e sull’acquisizione di una memoria visiva in un ideale nesso tra sapere e saper vedere. Una visione che, chiarisce la professoressa Meyer, non sia meramente sensoriale ma critica, che passi per la formazione di un gusto e per la comprensione complessiva dell’opera d’arte e del suo contesto di appartenenza.

Si tratta di «un’educazione alla capacità di leggere i linguaggi artistici e di avvicinarsi criticamente all’oggetto artistico», spiega l’autrice: l’insegnante di storia dell’arte dovrebbe aiutare gli allievi a sviluppare un occhio critico di fronte al quadro in una sorta di “pedagogia dello sguardo”.

Non solo vedere con gli occhi e provare emozioni vuote e transitorie dinanzi a un oggetto percepito intuitivamente come “bello”, ma provare emozioni gravide di significati e collegamenti, che vanno a formare una più ampia “grammatica della vista” e consentono di leggere il singolo oggetto come occorrenza di un linguaggio artistico. Il piano sensoriale e quello intellettuale trovano quindi un punto di convergenza in questa grammatica: la visione dell’opera acquisisce un valore metodologico nell’incontro tra la sensazione e il pensiero in una “critica”.

Storiche dell’arte cenerentole: una doppia emancipazione?

Fernanda Wittgens, critica d’arte, storica dell’arte, museologa e prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera

Sorge spontaneo notare poi che la parola “Cenerentola” rimandi a una condizione di subalternità tipicamente femminile.

«Senza applicare interpretazioni del presente al passato, in effetti si può dire che, soprattutto in un momento in cui per le donne era ancora molto difficile entrare nelle istituzioni, nelle soprintendenze, nei musei e nelle gallerie, la Scuola di perfezionamento di Venturi abbia rappresentato per loro una preziosa occasione di formazione professionale e di esercizio del mestiere».

Da Mary Pittaluga a Fernanda Wittgens, da Paola della Pergola a Palma Bucarelli, le storiche dell’arte e museologhe italiane hanno spesso trovato opportunità di lavoro e dunque emancipazione nell’insegnamento nelle scuole e nella direzione di musei, laddove altri percorsi professionali erano loro preclusi.

«Inoltre», aggiunge Meyer, «quando negli anni ’30 le donne cominciano ad essere espulse da tutti gli impieghi pubblici secondo la visione fascista della donna madre, moglie e custode della casa, per la prima volta le storiche dell’arte intervengono sulla stampa pubblica per difendere la propria professionalità e il proprio posto di lavoro».

In un certo senso, quindi, si può dire che con l’insegnamento della storia dell’arte ci sia stata una duplice emancipazione: da un lato quella della disciplina e dall’altro quella femminile attraverso l’insegnamento di questa disciplina.

I manuali del futuro e la storia dell’arte ancora da scrivere

E oggi?

«Oggi abbiamo una pluralità di approcci, tentativi, ricerche, sperimentazioni più o meno strutturate che fanno della storia dell’arte un raccoglitore e uno snodo per tante altre parti del sapere e il luogo privilegiato per un’apertura al territorio», spiega Susanne Adina Meyer.

Tuttavia, secondo l’autrice la situazione nelle scuole non è poi tanto cambiata. Anzi, in termini di specializzazione dei docenti e scientificità della disciplina sembra quasi di essere regrediti:

«con le ultime riforme scolastiche la storia dell’arte è stata nuovamente penalizzata con una riduzione delle ore e l’adozione di manuali aridi nei contenuti. Non solo la storia dell’arte è ancora una Cenerentola a scuola, ma ad essa si sono affiancate molte altre nuove Cenerentole, in un quadro di generale inadeguatezza dei criteri d’insegnamento scolastico rispetto alle esigenze di formazione delle nuove generazioni».

L’autrice evidenzia quelle che sono per lei le sfide attuali della disciplina: una necessaria revisione degli orari di lezione, un aggiornamento delle linee-guida nazionali sui programmi, e una selezione di insegnanti che abbiano una formazione storico-artistica specialistica.

Ma d’altro canto, in attesa di provvedimenti dall’alto, secondo lei a fare la differenza potrebbe essere la capacità dei docenti di entrare in empatia con gli studenti e stimolare in loro curiosità, interesse e passione verso l’arte attraverso progetti e iniziative dal basso. Forse, la chiave per l’emancipazione di questa disciplina dalla sua condizione di “Cenerentola” è allora un’auspicabile sorellanza fra Cenerentole che, unite in una reciproca solidarietà, smettano di aspettare il principe azzurro e comincino a salvarsi da sole: una storia dell’arte in grado di ripensarsi a partire dalla sua stessa crisi e di dialogare con i fenomeni del mondo contemporaneo e le altre discipline – sempre in bilico tra specializzazione e interdisciplinarità – in un necessario rispecchiamento tra le immagini del presente e le immagini del passato.