Immagine realizzata con l’AI
Tra Referendum e Ius Scholae, il discorso che coinvolge cittadini e stranieri, il “noi” e “loro”, è al centro del dibattito politico. Ma facciamo chiarezza e partiamo dall’attualità per capire che rapporto c’è davvero tra cittadinanza e residenza
È sulla bocca di tutti la questione del Referendum sulla Cittadinanza, il quesito proposto da Più Europa attraverso cui si vuole ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza minima per ottenere la cittadinanza nel nostro Paese. Una proposta che coinvolgerebbe più di 2 milioni di persone, e che pochi giorni fa ha ottenuto le 500 mila firme necessarie per procedere al voto – in primavera, salvo imprevisti. Il quesito è stato ovviamente accompagnato dal susseguirsi delle opinioni politiche, che da destra e da sinistra hanno espresso il loro pensiero sull’argomento, coinvolgendo inevitabilmente aspetti sociali, culturali ed economici.
Premesso ciò, è facile intuire come gli studi sui temi della cittadinanza e della residenza siano estremamente trasversali e più attuali che mai. Studi di cui si sta occupando Matteo Pignocchi, ricercatore del Dipartimento di Giurisprudenza di Unimc, il quale si è posto una domanda: il concetto di residenza sta davvero diventando più importante della cittadinanza? Facciamo un passo indietro e spieghiamo tutto per bene.
Cosa intendiamo con cittadinanza e residenza?
«La Costituzione – spiega Pignocchi – definisce, attraverso il suo sistema di diritti e doveri fondamentali, l’individuo nella società civile, e lo fa dalla nascita dello Stato moderno col concetto di cittadinanza, che indica il limite degli individui con cui lo Stato si rapporta con continuità e stabilità, i cittadini, e li distingue dai cosiddetti stranieri».
Diverso è invece quando parliamo di residenza,
«Un criterio giuridico di riconoscimento dell’individuo che riguarda una scelta: la scelta di vivere in un posto, o in un altro. Possiamo definirlo un criterio “laico”, dato che coinvolge sia cittadini che stranieri – uno straniero, cittadino di un altro Paese, e un cittadino italiano possono entrambi scegliere di stabilirsi e vivere in Italia –; e a differenza della cittadinanza, si tratta di un criterio che ha avuto, inizialmente, rilevanza privata, non pubblica».
Entrando nel merito della sua ricerca,
Pignocchi nota come «tutti i fenomeni socioeconomici degli ultimi tempi, come le nuove ondate migratorie e l’internazionalizzazione, abbiano portato lo Stato a relazionarsi, rispetto al passato, con più cittadini stranieri, che sono poi venuti a vivere stabilmente nel nostro Paese. Quindi lo scopo è quello di capire se il concetto giuridico di residenza abbia preso spazio per definire quale individuo ha rapporti con lo Stato, giustificando il fatto che partecipi alle decisioni pubbliche». E questo spazio lo ha preso, ma non a discapito della cittadinanza, poiché stiamo parlando di due concetti, entrambi fondamentali, confrontabili solo se posti in parallelo, e non sui due piatti della stessa bilancia.
Le differenze
«L’ordinamento giuridico e alcune sentenza della Corte Costituzionale, soprattutto per cercare di dare qualificazione giuridica allo straniero, hanno sempre dato molta importanza alla residenza, in particolare per il riconoscimento dei diritti fondamentali – come quelli sociali e civili – di cui tutti in Italia possono godere, che siano o no cittadini», ma restano appannaggio della sola cittadinanza i diritti politici – il diritto di voto alle elezioni politiche, in particolare –, il che rende indiscutibile la sua rilevanza all’interno della comunità, benché per vivere quella comunità non risulta una condizione necessaria come lo è la residenza. «Comunque, un dato importante della ricerca è che l’elemento di fatto della residenza, ossia “l’io scelgo di vivere qui”, dal punto di vista giuridico è stato la giustificazione per garantire tutta una serie di diritti fondamentali».
Da quanto detto si deduce come non esista una risposta netta alla – provocatoria – domanda iniziale. L’unica sicurezza, tuttavia, è che l’intreccio tra cittadinanza, residenza e i diritti che ne conseguono generano un dibattito politico in cui la domanda è:
Chi può essere cittadino italiano?
«Da ricercatore – sempre Pignocchi – ti dico che la Costituzione riconosce i diritti tanto allo straniero quanto al cittadino. L’estensione dell’orizzonte di questi diritti è quello che cambia, e qui si distinguono le varie idee: il lato conservatore, per partecipare alla comunità nazionale e votare i rappresentanti, considera solo coloro che, posto che possa dirsi, hanno un legame molto forte, come gli italiani per sangue, tramite lo Ius Sanguinis. Alcuni conservatori si stanno aprendo al discorso dell’affinità culturale, attraverso l’idea dello Ius Scholae, secondo cui puoi essere cittadino italiano una volta concluso il percorso della scuola dell’obbligo, come se la scuola garantisse un minimo comun denominatore culturale. Lo Ius Soli – il “se nasci qui, sei cittadino” – incontra invece più l’opinione dei progressisti. Poi c’è l’ipotesi data dal Referendum – anche questa di aria progressista – che dà rilievo al concetto di residenza e quindi alla scelta di vita del singolo, quando dimostra la volontà di stabilirsi nella comunità del territorio».