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Nell’epoca dei contratti precari, degli stipendi inadeguati, delle scarse tutele lavorative, è possibile immaginare il proprio lavoro anche come motore di crescita e realizzazione personale e collettiva? Ne abbiamo parlato col professor Fabrizio d’Aniello.

Fabrizio d’Aniello, docente di Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo dell’Università di Macerata, da anni si occupa di pedagogia del lavoro. Al centro del suo studio è posta l’analisi e la promozione delle condizioni di educabilità nei contesti di lavoro.

«Analizzare e promuovere le condizioni di educabilità significa fare riferimento a quelle che sono le due principali radici etimologiche del termine educazione: da una parte l’“educere”, cioè il trarre fuori e rendere manifesto il potenziale umano in tutte le sue sfaccettature, e dall’altra parte l’“educare”, che sta a significare, per estensione, il prendersi cura di questo potenziale», ha affermato d’Aniello ai microfoni di SociaL@b.

«L’obiettivo è quello, in maniera molto sintetica, di porre sullo stesso piano gli interessi di sviluppo economico con gli interessi di sviluppo umano».

Il professor d’Aniello durante la diretta di SociaL@b.

Promuovere il benessere del lavoratore non rappresenta un ostacolo al profitto aziendale: può invece contribuire a migliorare la produttività dell’azienda, dando vita a un mutuo scambio, in quanto un lavoratore più motivato – da un punto di vista prettamente utilitaristico – può rendere di più. Nonostante la logica sembri chiara, D’Aniello riconosce che in alcuni casi si scontra con la realtà dei fatti.

Le grandi dimissioni

Dal 2021, anche grazie all’occasione di riflessione offerta dal periodo della pandemia, si è infatti sviluppato il fenomeno della great resignation, grandi dimissioni volontarie di massa. In quell’anno più di quaranta milioni di lavoratrici e lavoratori negli Stati Uniti avrebbero rassegnato le proprie dimissioni, testimoniando un problema sistemico relativo alle condizioni lavorative vissute.

«Non è tanto questione di non voler fare gavetta, ma forse di non voler più accettare anche certe condizioni che non consentono non dico una progettualità legata alla propria esistenza – il famoso fare famiglia, quindi sposarsi oppure comprare casa – ma in alcuni casi nemmeno la sopravvivenza.»

In Italia, nel 2021, il fenomeno delle grandi dimissioni ha coinvolto quasi due milioni di persone, in particolare giovani tra i 25 e i 35 anni. Le nuove generazioni si trovano a scontrarsi con un ambiente sfidante: «tirocini che invece di durare un mese o tre mesi poi durano un anno e che sono di 500 € lordi e quindi 300 € netti al mese; apprendistati che consentono sgravi fiscali e che si reiterano e non sfociano mai in un contratto che dia una qualche garanzia. Studiando la materia vedo che è un fenomeno diffuso».

Una minaccia al senso di comunità

Le logiche di competizione e performatività dominano l’attuale organizzazione del lavoro e mettono in crisi il senso di comunità tra i lavoratori. Anche laddove la collaborazione viene richiesta e incentivata, «in realtà, tendenzialmente – precisa d’Aniello – è strumentalizzata in termini comparativi, valutativi, emulativi, per spingere sempre più in alto l’asticella della produttività. Non è un’autentica collaborazione». Da questa premesse si sviluppa la preoccupazione della pedagogia del lavoro di porre una maggiore attenzione al rispetto del valore della persona e del suo sviluppo e alla ricostruzione di un “noi”.

Nuove figure e nuove pratiche

Nonostante le criticità evidenziate, negli ultimi decenni nel mercato del lavoro sono emersi anche alcuni segnali positivi. La società si è tendenzialmente smarcata dalla concezione di lavoro parcellizzato, atomizzato, alienante, in stile “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Oggi si dà maggiore valore alle capacità comunicative, relazionali ed emotivo-affettive delle lavoratrici e dei lavoratori. Inoltre, a livello nazionale – seppur in termini ancora non così estesi – cominciano a diffondersi le figure di welfare manager pedagogicamente formate.

I welfare manager, che si occupano di progettare e gestire programmi per migliorare il benessere dei dipendenti e la loro qualità della vita, stanno assumendo un ruolo diverso rispetto al passato.

«Al di là di quelli che sono i compiti tradizionali sul piano fiscale, giuridico, dei diritti, dei benefit, se pedagogicamente formati, i welfare manager estendono la loro azione, mirando anche a una maggiore inclusività, a una cittadinanza attiva, a prendersi cura delle persone e delle relazioni umane tra queste persone» così da rendere l’organizzazione aziendale un luogo di cura in grado di favorire lo sviluppo del potenziale umano.

In questo scenario, la pedagogia del lavoro può offrire un importante contributo a livello di consapevolezza e diffusione di una cultura del lavoro più inclusiva e orientata al benessere.