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La crisi climatica è realtà, gli Stati rimandano le soluzioni e gli attivisti li portano sul banco degli imputati (c’entrano una sentenza olandese del 2019 e i Diritti Umani). Com’è possibile? Quali problemi comporta?
Fridays for Future, Extinction Rebellion, Ultima Generazione, sono solo alcuni dei movimenti internazionali nati nell’ultimo decennio per denunciare l’enorme impatto dell’emergenza climatica in corso, e per chiedere a governi e multinazionali di agire in direzione della sostenibilità. Come? Marce di protesta, blocchi stradali, azioni non violente in luoghi di particolare interesse; basti pensare alla vernice nei musei o davanti alle sedi istituzionali e delle grandi compagnie petrolifere. Tutte attività che mirano a portare l’attenzione pubblica sul tema, ma qualcosa sta cambiando.
«Si sta manifestando molto, soprattutto in Europa e negli USA, l’idea di proporre azioni giudiziarie contro i singoli Stati, per costringerli a porre in essere gli atti normativi necessari al fine di raggiungere gli obiettivi posti con l’Accordo di Parigi». A parlare è Gianluca Contaldi, docente di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Macerata, che nella sua ultima ricerca si è concentrato sul concetto di giustizia climatica, e quindi sui mezzi legali utilizzati – non senza problematicità – da gruppi, associazioni e movimenti privati nei confronti dei singoli Paesi per cercare di smuovere i governi e ottenere azioni concrete in fatto di ambiente.
Quindi, com’è possibile?
Nell’Accordo di Parigi, documento finale della COP21 del 2015, tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite partecipanti all’assemblea hanno messo nero su bianco l’impegno a contenere l’aumento delle temperature entro i +1,5/2°, intervallo oltre il quale gli scienziati identificano il “punto di non ritorno” della crisi climatica. Per raggiungere tale scopo è necessario, dai dati presentati nell’Accordo, ridurre tutte le emissioni di gas serra del 40% entro il 2030, e raggiungere le zero emissioni entro il 2050:
«Ma tutto ciò non è un obbligo, è un’indicazione – spiega Contaldi –, infatti gli Stati sono liberi nello stabilire come raggiungere l’obiettivo, e nella preparazione dei piani per il contenimento delle emissioni climalteranti. Ogni Stato quindi si auto-vincola, ma hanno tutto l’interesse a mantenere l’attuale modello economico e industriale».
Motivo per cui gli attivisti, per rendere gli obiettivi vincolanti, hanno iniziato a muoversi per via legale. Il che tuttavia può sembrare inefficace data la natura non costringente del diritto internazionale in questo ambito. «Il punto di svolta è arrivato con la famosa sentenza Urgenda – da “urgent agenda” – emanata nel 2019 della Corte di Giustizia olandese, in cui per la prima volta hanno letto le azioni di mitigazione della crisi climatica attraverso la lente dei diritti umani: in parole povere, se lo Stato non agisce, mette in pericolo la salubrità dell’ambiente, e quindi la vita delle persone». La sentenza si appoggia infatti alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, e collega la tutela della vita privata e familiare, presente all’art. 8 della Convenzione, alla tutela dell’ambiente, e agli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi e ratificati nel 2018 dall’IPCC, The Intergovernmental Panel on Climate Change, istituto delle Nazioni Unite.
Questo significa che finalmente gli Stati saranno obbligati a perseguire la tutela dell’ambiente?
Non esattamente. «Fino ad ora c’è ancora un buco – ci dice il professore – devi agire in via preventiva per costringere gli Stati ad attuare azioni per la tutela del clima e per prevedere un risarcimento in caso di danno, ma di fatto i risarcimenti e le colpe si hanno solo dopo che un danno si verifica». Inoltre, «deve essere accertato che quel danno sia stato causato dal cambiamento climatico». Resta quindi difficile stabilire il nesso di causalità tra un fenomeno avverso, il cambiamento climatico e l’inadempienza di un singolo Stato, a maggior ragione tenendo conto che siamo di fronte ad un problema di natura globale.
Un inghippo che, quest’ultimo, può essere superato «se si accoglie la teoria per cui ogni nazione deve fare la propria parte, rendendo così tutti responsabili. Ma qui abbiamo un difetto di giurisdizione, perché posso chiedere al giudice nazionale di obbligare la tutela dei Diritti dell’Uomo solo del suo Stato. Una sentenza della Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo è andata oltre questo limite, interpretando la nozione di giurisdizione in maniera più ampia, affermando come ogni Stato che non faccia il suo buon compito per mitigare la crisi climatica, sia responsabile anche delle lesioni ai diritti dell’uomo dall’altra parte del mondo. Una teoria respinta però dalla Corte EU dei Diritti dell’Uomo: emblematico il caso dei sei giovani attivisti portoghesi che avevano citato in giudizio 32 Stati, tra cui il loro e alcuni extra-EU, per inazione climatica, dove la Corte si è espressa contrariamente a questa teoria della giurisdizione territoriale universale, che servirebbe per tutelare il clima».
Altro esempio emblematico che il docente riporta è il caso delle KlimaSeniorinnen (vedi il precedente link): qui la Corte Europea ha condannato la Svizzera, chiamata sul banco degli imputati dal gruppo di attiviste, per aver violato, collegandolo alla tutela dell’ambiente, proprio l’art. 8 della Convenzione. Tuttavia, il parlamento dello stato elvetico ha rigettato questa sentenza, e i motivi sono legati alle problematiche già espresse: la mancanza di norme vincolanti e un nesso di causalità non chiaro, a cui si aggiunge il totem della separazione dei poteri, per cui in ogni Stato democratico la magistratura non può interferire nelle decisioni politiche, ma si deve limitare a stabilire cosa è e non è legalmente consentito.
«Al momento non ho la risposta alle varie obbiezioni sul tema – chiosa Contaldi –, ma la ricerca va avanti, quindi vedremo».