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Cosa significa abitare? Servono solo quattro mura o una rete sociale? È davvero un diritto? E perché ne dobbiamo parlare?

Permettersi una casa è sempre più difficile. Qualche dato: i prezzi degli affitti crescono e in media coprono il 30% degli stipendi, il cui aumento, nel corso degli anni, non basta neanche a coprire l’inflazione e il generale aumento del costo della vita. Secondo le medie retributive, per comprare una casa di 80 metri quadri, sono necessari 12 anni di stipendio da operaio o circa 10 da impiegato. Aggiungiamo che il numero dei senza fissa dimora nel nostro Paese è di quasi 100 mila persone (Istat 2021), e otterremo un quadro in cui è evidente come il diritto all’abitare sia fortemente compromesso. Ma prima di avventurarsi in politiche di qualsivoglia colore partitico, più o meno conservatrici o progressiste, secondo Carla Danani, docente di filosofia morale e filosofia dell’abitare dell’Università di Macerata, bisognerebbe fermarsi e rivalutare la prospettiva con cui guardiamo a questo diritto: ragionare su di esso, prima che sulle soluzioni.

«Dobbiamo considerare l’abitare come il modo di essere al mondo degli esseri umani – spiega la docente – non come una cosa che possiamo fare o non fare come se fosse un’attività. Il che vuol dire che siamo in una relazione con il mondo, una relazione costitutiva, che abbraccia molteplici dimensioni: la dimensione fisica, simbolica e sociale, le quali si coagulano di volta in volta nei vari luoghi in cui l’abitare si svolge concretamente».

Gli obiettivi della ricerca

A partire da questa lettura si delinea lo scopo di “Social Housing”, la ricerca, condotta all’interno del progetto Vitality – Ambito 7: SAFINA – attraverso cui si intende ripensare al concetto di abitare, e ideare, in collaborazione con vari partner radicati nel territorio, delle linee guida per un vivere più accessibile, sostenibile ed equo.  

Prof.ssa Carla Danani ai microfoni di Social@b Ep.09

La ricerca, condotta il collaborazione con le docenti Paola Nicolini e Veronica Guardabassi, in ottica interdisciplinare, risponde prima di tutto a un’urgenza: «La consapevolezza della rilevanza dell’avere una casa non è ancora una consapevolezza sociale – secondo Danani – non rientra tra le urgenze dei servizi alla persona, benché sia costitutiva per costruirsi come sé. La casa è il luogo di ristoro e riparo; se questo viene a mancare il soggetto è messo in difficoltà anche nella costruzione di sé stesso e nel modo in cui si pensa in relazione agli altri. Ma finché non si entra in una condizione di fragilità, finché non si incontra questa difficoltà, il singolo non si pone il problema, ed ecco perché sottolineiamo l’importanza di diffondere una sensibilità sul tema».

Un diritto sociale

Abitare però non significa solo avere un tetto sopra la testa, ma anche una rete di relazioni e di spazi in cui coltivarle o farne nascere di nuove. Scuole, piazze, trasporti, servizi, come molti altri aspetti dei luoghi in cui viviamo, diventano parti fondamentali di questo concetto, e non trascurabili nel momento in cui si arriva alla decisioni politiche. Tuttavia, ad oggi, l’abitare, più che diritto umano, è visto come merce, e in quanto tale succube delle leggi del mercato. Da qui vediamo l’aumento esponenziale degli affitti brevi, la gentrificazione e la turistificazione dei centri storici, come la nascita di vere e proprie “città dormitorio”: periferie esclusivamente residenziali, senza spazi pubblici, in cui isolamento, sicurezza e benessere vengono venduti come sinonimi.

«La prospettiva è di non lasciare al mercato la questione dell’abitare – afferma la professoressa – non perché vada demonizzato, ma perché l’abitare non è una merce. È un tema di cui si deve far carico la comunità in quanto tale nella sua dimensione sociopolitica. Credo che prima di tutto sia necessario un cambiamento di sguardo, il nascere di una consapevolezza, perché se c’è questa consapevolezza nei cittadini, nei residenti, in chi ha la potenzialità di acquistare una casa, si può essere esigenti nel cercare un luogo che favorisca le relazioni che mi consentono di vivere».